La storia della CINEMATERAPIA®
La Cinematerapia è una disciplina che ha moltissimi importanti predecessori sia in Italia che negli Stati Uniti. Tra i più importanti desideriamo citare il Prof. Antonio Mercurio, presidente della Sophia University of Rome e ideatore – tra molto altro – della Antropologia Personalistica Esistenziale, della Sophia-Art e della Cosmo-Art. Quest’ultima può a buon diritto essere considerata la più illustre progenitrice della Cinematerapia. Grazie al lavoro più che ventennale del Prof. Mercurio, è stato possibile sviluppare una metodologia di analisi dell’opera cinematografica che ritroviamo nella Cinematerapia.
Per una storia delle ARTI TERAPIE
L’espressività artistica come l’alfa e l’omega della medicina
Che l’uso delle arti come strumento terapeutico abbia preceduto la medicina vera e propria, è opinione ormai largamente diffusa e condivisa. Che più tardi, la medicina vera e propria divenuta scienza, accademia, cattedra, abbia preso le distanze dalle arti terapie considerandole forme improprie di metodologia sanitaria, è opinione altrettanto diffusa e condivisa. Che oggi nel quadro di nuovi rapporti instaurati tra l’interiorità dell’io e manifestazioni somatiche, tra benessere e malattia, si aprano nuove prospettive di impiego delle arti terapie a integrazione e complemento della medicina tradizionale, è opinione che viene ogni giorno più guadagnando consensi e proseliti. Nel mondo classico le arti terapie emersero dal mito e trovarono la loro più fascinosa verifica nell’esercizio delle espressività non meno che in quello della terapia. Proprio per questo a noi non giunge, di quella lontana stagione, se non l’eco di suggestioni magiche, che trovano quasi sempre nella musica e nella poesia la più qualificata espressione di un rapporto strutturale tra armonia e salute, o al contrario tra disagio del malato e mancato equilibrio anestesisti. Per fornire al lettore curioso del prologo qui accennato un esempio come prova che le arti terapie possano essere state l’alfa di un alfabeto medico sia pure a livello inconscio, offriamo un cenno dell’Orfeo” che i letterati conoscono dal testo di Angiolo Ambrogini detto Poliziano, e i musicisti dagli accordi tematici di Claudio Monteverdi. Nell’uno e nell’ altro caso, Orfeo è assunto a rango e a simbolo di quel medico che riesce a vincere non solo le malattie comuni degli uomini, ma anche quella suprema malattia che è la morte – tànatos – che gli aveva sottratto l’amore della bella Euridice.
Dal canto di Orfeo accompagnato dalla cetra, l’arte medica come fattore di vita e di saIute che vince col potere dell’armonia il freddo della morte, riuscendo a far rinascere la fanciulla amata. Ma la morte sconfitta dall’arte usata come terapia di vita e di benessere, reagisce a suo modo con la violenza che torna a strappare la ninfa allo sguardo del suo innamorato. Nel mito la violenza è impersonata dalle Baccanti – sacerdotesse di Bacco -, invasate e furenti che colpiscono e uccidono Orfeo facendolo letteralmente a pezzi.
Di volta in volta, dunque, l’arte (terapia) vince la malattia e la morte, ma alla fine l’oscuro epilogo del dramma si chiude con un presagio funesto. A prescindere da questo esempio, archeologi, linguisti, storici e poeti hanno tramandato leggende e racconti dai quali è facile rilevare costantemente la funzione terapeutica della danza e del canto, della musica e del teatro, della parola e del gesto (quelle arti, appunto, che oggi indichiamo e praticate, come danzaterapia, musicoterapia, teatroterapia, comunicazione non verbale, arti plastiche, ecc.), che efficacemente la tradizione impersona nelle Muse, nelle Grazie, nelle Ninfe, vittime quest’ultime della violenza del Fauno.
Nel mondo Rinascimentale, quando la medicina sulla base dell’osservazione e dell’esperimento si avviò sulla strada dell’organizzazione scientifica del proprio lavoro, le distanze tra arti terapie e scienza medica parvero accentuarsi. Gli studiosi che a Padova, a Napoli, a Parigi, portarono la conoscenza del corpo umano a un livello assolutamente impensabile nei secoli precedenti, non riuscirono tuttavia a collocare il proprio lavoro gomito a gomito con quello dei fisici e degli astronomi. Ciò è provato dal fatto che nel momento più alto dell’Illuminismo quando Emanuele Kant identificò il giudizio scientifico tifico con la sintesi a priori tra concetto e sensazione, si vide costretto per la medicina e per la biologia a formulare un giudizio diverso che chiamò riflettente. Questo consiste nell’attribuire alla natura una finalità immanente, intelligente sì, ma non necessaria come accade con il principio di casualità nelle scienze vere e proprie. Così, mentre le teologie allora dominanti praticavano in qualche modo una sorta di arte terapia suggerendo ai fedeli il digiuno dai cibi come cura fondamentale contro tutte le malattie gastroenteriche spingendoli in tal modo ad un esercizio ascetico – funesta anticamera dell’anoressia dei nostri giorni -, le due vie della scienza medica e delle arti terapie continuavano a procedere parallele e non convergenti.
Fu invece il positivismo a chiarire definitivamente ruolo e limiti dell’uno e dell’altra, anche se il chiarimento non oltrepassava l’ambito delle metodologie e delle procedure impiegate. Pochi decenni più tardi Sigmund Freud, scienziato austriaco, ispirato alla cultura del positivismo stabilì una volta per tutte i i nesso tra disagio psicofisico, sensoriale o neurologico, e possibilità di recupero mediante l’uso delle arti terapie. Sulla base della sua personale esperienza medica e di una rigorosa concezione materialistica della soggettività cosciente, Freud intuì che la terapia più efficace delle malattie frutto di somatizzazione, doveva essere ricercata non già nell’uso di sostanze chimiche o di una farmacopea incerta e non sempre efficace, ma in una sollecitazione di stimoli in un gioco il più possibile naturale di spinte e reazioni, di equilibri ed emozioni, che appunto nel le arti terapie possono trovare il campo migliore di attuazione.
Ancora nella nostra generazione la scienza medica, dell’accademia e della cattedra, ha tentato di rifiutare il contributo delle arti terapie negandone il fondamento scientifico. Negli ultimi anni una siffatta situazione tende a modificarsi perché l’analisi dei comportamenti e dei risultati ottenuti rafforza il consenso verso le arti terapie e ne stimola e suggerisce un sempre più largo impiego. Gli operatori purtroppo non sempre dispongono degli strumenti necessari e anche quando hanno la cultura e l’esperienza necessarie alla bisogna, si trovano di fronte alla inerzia delle istituzioni che continuano a privilegiare un sistema sanitario tradizionale. E’ ciò che si registra ai nostri giorni per la formazione di operatori professionali abilitati alla utilizzazione delle metodiche arti terapeutiche. La mancanza di strutture e di normative indispensabili all’apprendimento, consolidamento e riconoscimento delle discipline artistico espressive, non rende idonei tali operatori al compito che dovrebbero svolgere. Per tali ragioni la formazione scientifico-culturale dell’arteterapeuta soffre, in Italia, d’un disagio istituzionale che s’accompagna specularmente alla sofferenza della popolazione disagiata: e ciò in contrasto con quanto accade in altri Paesi dell’Unione Europea.
La consapevolezza di tali problemi costituisce il vero motivo che ci spinge a cercare fin nei lontani secoli dei mito, le origini profonde e perciò anche la validità culturale e umana delle arti terapie.